Talamo anteriore nei difetti
cognitivi di autismo e schizofrenia
GIOVANNI
ROSSI
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 03 luglio
2021.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: RECENSIONE]
La schizofrenia
e l’autismo, due disturbi molto diversi in termini clinici, in quanto la
prima costituisce il prototipo delle forme più gravi di psicosi dell’adulto
e il secondo si studia come disturbo pervasivo dello sviluppo
diagnosticato nei primi anni di vita, sono spesso accomunati negli studi
genetici, in quanto sembra che la presenza di particolari alleli o profili
genetici possa predisporre allo sviluppo di entrambi i disturbi. In ogni caso,
i modelli sperimentali che riproducono i tratti neuropatologici salienti di
questi due grandi problemi clinici, costituiscono un importante riferimento per
la ricerca. Fin dalla fondazione della nostra società scientifica seguiamo gli
studi che indagano le basi del deficit cognitivo della schizofrenia che,
con l’evolvere nel tempo del disturbo, tende a rendersi sempre più evidente e
invalidante[1].
Così scriveva
Giovanna Rezzoni nel 2016: “La schizofrenia, come è noto agli
psichiatri esperti, può distinguersi da vari altri disturbi deliranti anche perché
si accompagna a declino cognitivo:
un aspetto di notevole rilievo clinico e di grande impatto esistenziale, in quanto
responsabile in buona parte dell’invalidità psicotica che segna la vita di
queste persone, nonostante un decorso migliorato dalle più recenti terapie”[2].
In
quell’articolo si presentava uno studio che aveva dimostrato per la
disbindina-1 un ruolo rilevante quale base molecolare del deficit cognitivo
nella schizofrenia ma, soprattutto, per ciò che concerne l’oggetto di questo
articolo, fornisce una spiegazione del perché il declino dell’intelligenza
nella psicosi schizofrenica sia stato trascurato: “Una preoccupazione ben evidente
nei clinici europei degli ultimi decenni del Novecento era rappresentata dalla
distinzione fra quadri clinici con sintomi psichiatrici dovuti a definite
alterazioni cerebrali, e perciò da considerarsi neurologici come le oligofrenie dell’età evolutiva e le demenze
dell’anziano, e le sindromi specifiche e proprie della clinica psichiatrica, quali nevrosi, psicosi e psicopatie, per le
quali si supponeva un’alterazione psichica solo “funzionale”, priva di una base
anatomopatologica cerebrale. L’enfasi posta su questa distinzione, che fra
l’altro rifletteva la separazione di competenze fra specialisti di neurologia e
psichiatria, originava dagli aspetti prototipici e caratteristici della
casistica clinica più frequente. La separazione era resa ancora più netta dalla
tendenza a considerare la mancanza di conoscenza di dati di patologia
molecolare, cellulare e dei sistemi neuronici per i disturbi d’ansia (nevrosi)
e per le psicosi (schizofrenica, bipolare, ecc.), equivalente alla certezza
dell’integrità di tali livelli strutturali. Infine, tale tipo di distinzione
trovava una certa corrispondenza nella dicotomia originata dai paradigmi
millenari della cultura popolare, che caratterizzava il matto come un esaltato o un originale dall’intelligenza talora
delirante e talaltra creativa, mentre considerava il deficiente e il demente
come carenti, deboli, ammalati[3].
La
cultura che voleva caratterizzare anche la distinzione fra la neurologia, come
la branca medica che si occupa di ictus, epilessia, tumori, traumi cerebrali, e
così via, e la psichiatria, che si occupa di ansia, fobie, attacchi di panico,
depressione e disturbi con deliri e allucinazioni, sollecitava l’attenzione sui
sintomi “propriamente psichiatrici” della schizofrenia, perché non si cadesse nell’errore
di considerarla una “demenza precoce” come era accaduto nell’Ottocento.
Probabilmente, questa enfasi eccessiva ha portato a trascurare per molto tempo
la considerazione e lo studio sistematico dell’indebolimento cognitivo”[4].
Non
è chiaro se all’origine del deficit cognitivo, che porta a disabilità
intellettiva in molti casi di disturbo schizofrenico e disturbo dello spettro
dell’autismo, vi siano meccanismi convergenti. Deeraj S. Roy e colleghi hanno
indagato questo problema, prendendo le mosse dal dato che molti geni di rischio
per autismo e schizofrenia sono espressi nella porzione anterodorsale (AD) del
nucleo talamico anteriore, che è in connessione reciproca con strutture
implicate nella memoria e nell’apprendimento.
I
risultati ottenuti dai ricercatori sono di sicuro interesse.
(Roy D. S., et al., Anterior
thalamic dysfunction underlies cognitive deficits in a subset of
neuropsychiatric disease models. Neuron – Epub ahead of print doi:
10.1016/j.neuron.2021.06.005, 2021).
La provenienza degli autori è la seguente: Stanley Center for Psychiatric
Research, Broad Institute of MIT and Harvard, Cambridge, Massachusetts (USA); Department
of Brain and Cognitive Sciences, MIT, Cambridge, Massachusetts (USA).
Prima di
sintetizzare lo studio qui recensito, ci sembra opportuno introdurci ai
problemi posti dal disturbo schizofrenico, così come lo si è inquadrato di
recente[5].
I
problemi affrontati dallo studio qui recensito pongono in gioco la conoscenza
relativa alle cause delle psicosi e al modo in cui le alterazioni cerebrali producono
la disfunzione che altera nel soggetto la consapevolezza di sé e del mondo –
che appaia o no, che risulti sempre e a chiunque evidente o emerga solo da una sapiente
conduzione del colloquio psichiatrico – e induce sintomi
positivi, quali
deliri e allucinazioni, sintomi negativi,
come l’anaffettività e il negativismo, e sintomi
cognitivi, quali disorganizzazione del pensiero, linguaggio soggettivo o
inappropriato, deficit di attenzione e memoria, senza contare le frequenti stereotipie
di moto. E per il lettore non specialista è opportuno riportare alcune nozioni sull’argomento
a scopo introduttivo, che traggo dall’articolo di Giovanni Rossi dello scorso
20 marzo[6].
“Due anni fa ho ricordato un modello
neuroevolutivo della schizofrenia[7] attualmente oggetto di insegnamento in molte facoltà mediche di tutto il
mondo e proposto per la prima volta da Keshavan nel 1999: durante l’embriogenesi
noxae evolutive portano alla
displasia delle strutture costituenti alcune specifiche reti neuroniche, causando
in tal modo i segni premorbosi cognitivi e psicosociali; durante l’adolescenza,
un’eccessiva eliminazione di sinapsi determina un’iperattività dopaminergica
fasica e precipita la psicosi. Keshavan nota che, dopo la manifestazione
clinica della malattia, le alterazioni neurochimiche possono condurre a
processi neurodegenerativi.
Il motivo del successo di questo
modello è dato dal “sostegno” ricevuto da numerose evidenze sperimentali. In realtà,
si tratta di una ricostruzione ragionevole e coerente con i dati dai quali è
stata desunta, e nulla esclude che sia corretta; tuttavia rimane troppo generica
rispetto all’esigenza di capire perché e come le “noxae” causino una
displasia responsabile di quei sintomi precoci e perché si determini una
perdita di sinapsi che causa iperfunzione dopaminergica[8].
Proprio il
legame tra fattori genetici e meccanismi patogenetici potrebbe aprire la via
per la comprensione anche del ruolo e del modo in cui intervengono i fattori
ambientali. Chiarire questi aspetti, almeno in via preliminare, potrebbe
consentire di risolvere alcuni problemi dell’insegnamento della clinica
psichiatrica delle psicosi”. In proposito, io avevo fatto notare le
contraddizioni del manuale diagnostico e statistico dell’American Psychiatric
Association:
“Nel DSM-5
si riporta un forte contributo di fattori genetici all’eziopatogenesi della
schizofrenia ma, subito dopo, si legge dell’assenza di storia familiare di
psicosi nella maggior parte dei casi[9]. Al contrario, nell’edizione precedente si citano dati
desunti dagli studi epidemiologici maggiori di quegli anni, che riportano una
probabilità di sviluppare schizofrenia di 10 volte superiore alla popolazione
generale per coloro che abbiano un parente biologico di primo grado affetto, e
un tasso di concordanza fra gemelli monozigoti più elevato di quello registrato
fra gemelli dizigoti”[10].
La via da
percorrere è sicuramente lunga, ma alcuni gruppi di ricerca hanno cominciato a
compiere i primi passi prendendo le mosse dallo splicing alternativo di
geni di rischio per la schizofrenia, quali DRD, GRM3 e DISC1, sebbene le
caratteristiche di questo processo rimangano in molti casi ancora oscure. Nella
citata recensione del 20 marzo si può legger il contributo sperimentale a
sostegno di questa ipotesi patogenetica fornito da Chu-Yi Zhang e colleghi.
Per avvicinarsi
al problema del rapporto tra patologia e sintomatologia, si riporta qui di
seguito un’introduzione alla clinica della schizofrenia.
“La schizofrenia, che interessa l’1%
della popolazione mondiale, costituendo una delle maggiori cause di disabilità
mentale, è la più grave delle alterazioni psichiche che accompagnano l’intera vita
di un paziente psichiatrico, dall’esordio in età giovanile o all’inizio dell’età
adulta fino alla morte, di dieci anni più precoce della media nella popolazione
generale. La concettualizzazione di questo disturbo come malattia delle mente
si deve al grande nosografista tedesco Emil Kraepelin che, prendendo le mosse
dal caso di uno studente brillante diventato inabile per i compiti cognitivi
più semplici dopo la comparsa dei sintomi, identificò un piccolo gruppo di
pazienti con un simile decorso caratterizzato dalla perdita dell’intelligenza
e, per questo elemento che gli parve caratterizzante, propose la definizione
diagnostica di demenza praecox.
Era dunque ben presente l’aspetto
relativo al limite cognitivo, poi per decenni trascurato, soprattutto per l’influenza
delle teorie psicodinamiche sulla genesi del disturbo, che attribuivano a
conflitti inconsci lo sviluppo di un funzionamento mentale aberrante e non all’alterazione
del fondamento neurobiologico cerebrale, necessario anche per i più elementari
processi di estrazione di significato dai messaggi verbali, oltre che per
induzione, deduzione, riconoscimento di nessi di causalità e vincoli condizionali.
Lo stesso Eugen Bleuler[11], che introdusse il termine “schizofrenia” per indicare la frequente scissione
(schizo-) nello psichismo e, in particolare, la separazione del tono
affettivo ed emotivo dalla cognizione espressa nella comunicazione, aveva ben
presente il difetto intellettivo che peggiorava col progredire della malattia.
A quell’epoca, l’opinione degli
psichiatri era concorde nel ritenere questo quadro psicopatologico la
conseguenza di una malattia del cervello con una forte base genetica, e
caratterizzata da un processo patologico che si supponeva diffuso nel
parenchima cerebrale, con particolare compromissione della corteccia, ritenuta
la base dei processi intellettivi. L’unica possibilità esistente a quel tempo
di studio del cervello consisteva nell’osservazione necroscopica e nel prelievo
autoptico di campioni di tessuto cerebrale, per lo studio istologico.
Gli stessi padri fondatori della
neuropatologia, Nissl, Alzheimer e Spielmeyer, condussero ricerche istologiche post-mortem
sul cervello di pazienti schizofrenici, descrivendo apparenti alterazioni che
si rivelarono incostanti e non caratterizzanti[12]. In particolare, nel 1897 Alzheimer segnalò una scomparsa locale di
cellule gangliari negli strati esterni della corteccia cerebrale; Klippel e
Lhermitte (1906) descrissero zone di demielinizzazione focale, il cui reale
valore di reperto istopatologico fu contestato, molto tempo dopo, da Adolf
Meyer e poi da Wolf e Cowen. Anche Buscaino in Italia (1921), capostipite di
una famiglia di neurologi illustri, compì studi neuropatologici sulla struttura
del cervello schizofrenico, descrivendo formazioni a grappolo, che si rivelarono
poi artefatti di preparazione del tessuto. Josephy (1930) descrisse una sclerosi
cellulare e una degenerazione grassa degli strati corticali, che non trovarono
riscontro in altri studi. Bruetsch, nel 1940, credette addirittura di aver rinvenuto
dei focolai reumatici nell’encefalo psicotico; sicuro della bontà e
significatività del reperto, postulò un ruolo eziologico per la febbre
reumatica.
Nel 1952 Winkelman riscontrò nel
cervello schizofrenico una perdita diffusa di neuroni, ma furono sollevati dubbi
circa la significatività del reperto che si ritenne potesse essere stato generato
dalle procedure istologiche impiegate. Allora, nel 1954, Cécilie e Oskar Vogt[13], per superare questo problema, allestirono uno studio che prevedeva un’accurata
indagine seriale degli emisferi cerebrali mediante sezioni sottili dello
spessore di 8 μ in uno studio controllato, in cui i reperti istologici dei
cervelli dei pazienti erano comparati con identiche sezioni del cervello di persone
non affette da psicopatologia e decedute per cause non cerebrali alla stessa età.
I Vogt trovarono in tutti i cervelli schizofrenici alterazioni assenti nei
cervelli sani, anche se la localizzazione, l’aspetto istologico e la densità
variavano da un caso all’altro. I tre reperti principali dei Vogt furono cellule
colliquanti (Schwundzellen), degenerazione vacuolare e liposclerosi.
Negli ultimi decenni, dopo oltre
cinquanta anni durante i quali la concezione neuropatologica della schizofrenia
è stata abbandonata in luogo di teorie eziologiche psicoanalitiche, relazionali
e comportamentali, si è tornati su più solide basi, fornite dalle metodiche di
neuroimmagine, dalla nuova genetica e dalle scoperte di neurobiologia
molecolare e neurochimica, a concepire le psicosi schizofreniche come conseguenza
di alterazioni del cervello[14]. Dalle differenze nel metabolismo cerebrale, nell’espressione dei
recettori, nelle dinamiche sinaptiche, negli equilibri fra sistemi neuronici, nelle
funzioni degli astrociti, fino a quelle emerse dallo studio delle connessioni
secondo i metodi del campo specializzato della connettomica, si dispone di un’imponente
raccolta di dati che individua le basi cerebrali di una fisiopatologia, che non
potrebbe essere spiegata nei termini obsoleti della “reazione maggiore”,
contrapposta alla “reazione minore” costituita dai disturbi d’ansia”[15].
Nel 2012, insieme col nostro
presidente, ho affrontato il problema allora emergente dell’alterazione della
funzione talamica nella schizofrenia[16].
Ritorniamo,
ora, ai contenuti dello studio qui recensito.
CRISPR-Cas9 knockdown
per geni di rischio multipli, selettivamente nel talamo antero-dorsale (AD)
portava a deficit di memoria.
Mentre il talamo
AD è necessario per la codifica di memorie contestuali, i vicini nuclei
antero-ventrali (AV) regolano la specificità di memoria. Queste funzioni
distinte di AD e AV sono mediate attraverso le loro proiezioni alla corteccia
retrospleniale, usando meccanismi diversi.
Il knockdown
dei geni PTCHD1, YWHAG, o HERC1 da AD portava ad ipereccitabilità
neuronica, e la normalizzazione dell’ipereccitabilità recuperava i deficit di
memoria in questi modelli.
Questo
studio identifica meccanismi convergenti dal livello cellulare a quello di
circuito nel gruppo dei modelli sperimentali indicati.
L’autore della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e
invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione
“NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giovanni Rossi
BM&L-03 luglio 2021
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La Società Nazionale di Neuroscienze
BM&L-Italia, affiliata alla International Society of Neuroscience, è registrata
presso l’Agenzia delle Entrate di Firenze, Ufficio Firenze 1, in data 16 gennaio
2003 con codice fiscale 94098840484, come organizzazione scientifica e culturale
non-profit.
[1] Si invita per questo a cercare e
leggere le decine di articoli pubblicati su questo argomento nelle “Note e
Notizie”.
[2] Note e Notizie 27-02-21 Il
deficit cognitivo della schizofrenia è legato alla disbindina.
[3] I cenni storici e questa breve
discussione sono stati basati su testi e lezioni del presidente Perrella, in
parte sintetizzati dal professor Giovanni Rossi.
[4] Note e Notizie 27-02-21 Il
deficit cognitivo della schizofrenia è legato alla disbindina. Si veda
anche lo studio maggiore sui rapporti fra geni associati alla schizofrenia e
volume delle aree cerebrali sottocorticali: Note e Notizie 20-02-16 Influenze genetiche su schizofrenia e volume
sottocorticale. Per i rapporti con la morfologia si veda anche: Note e Notizie 21-11-15 Nella schizofrenia
la normale asimmetria emisferica è ridotta e alterata e Note e Notizie 14-02-15 Segni di schizofrenia che precedono i sintomi
per una diagnosi precoce.
[5] Note e Notizie 29-05-21
Scoperte
nella schizofrenia alterazioni associate ad allucinazioni verbali resistenti.
[6] Note e Notizie 20-03-21
Patogenesi della schizofrenia da splicing alternativo. Per questa patogenesi
si legga il testo integrale dell’articolo.
[7] Note e Notizie 16-02-19 Nella
schizofrenia la microglia riduce le sinapsi.
[8] È evidente la costruzione
deduttiva da dati e inferenze precedenti. Quando è stato proposto il modello, il
campo di studi della fisiopatologia della schizofrenia era ancora dominato dall’ipotesi
dell’iperfunzione dopaminergica, desunta dall’azione anti-dopaminergica di
fenotiazinici, butirrofenonici e altri neurolettici di prima generazione
efficaci nel ridurre deliri e allucinazioni degli schizofrenici. Negli ultimi venti
anni si è consolidata l’evidenza della partecipazione di tutti i sistemi trasmettitoriali
alla fisiopatologia, con una prevalenza di interesse anche farmacologico per i
sistemi neuronici a segnalazione glutammatergica.
[9] Cfr. AAVV., Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders
DSM-5, American Psychiatric Association, p. 103, American Psychiatric
Publishing, Washington DC 2013.
[10] Note e Notizie 02-11-19
Interazione fra genetica e ambiente nella schizofrenia.
[11] Sulla storia delle origini della
diagnosi di schizofrenia e sull’evoluzione del concetto in psicopatologia vi sono
numerosi riferimenti negli scritti pubblicati nelle “Note e Notizie”; nella
sezione “In Corso” sotto il titolo “La concezione dei disturbi mentali nella
storia” si può leggere una cronologia che, in brevissime sintesi concettuali,
elenca l’evoluzione che si è avuta nel concetto di malattia mentale dalle prime
tracce scritte, risalenti al 3400 a.C., fino ai giorni nostri.
[12] Le nozioni storiche riportate di
seguito sono tratte da una relazione del nostro presidente; per le indicazioni
bibliografiche complete si veda in Silvano Arieti, Interpretazione
della Schizofrenia, in 2 voll., Feltrinelli, Milano 1978.
[13] Ai coniugi Vogt è intitolato un
istituto di ricerca nel quale è esposta un’interessante collezione di cervelli.
Oskar Vogt divenne celebre per lo studio del cervello di Lenin, nel quale
rilevò cellule piramidali giganti della corteccia di dimensioni notevolmente
superiori alla media.
[14] Sicuramente una parte non
trascurabile in questa evoluzione l’hanno avuta i numerosi istituti di ricerca
che hanno dedicato le proprie attività alla ricerca di correlati neurobiologici
dei disturbi mentali e le riviste, come Molecular Psychiatry, che hanno
consentito la diffusione della conoscenza di risultati che hanno modificato dei
punti di vista che resistevano da decenni.
[15] Note e Notizie 16-11-19
Trattamento cognitivo della schizofrenia. Si veda anche: Note e Notizie 07-12-19
Differenze in S100b tra persone affette da schizofrenia.
[16] Note e Notizie 17-03-21
Alterata funzione del talamo nella schizofrenia.